Come malattia contagiosa, il tifo ha segnato per secoli la storia demografica del nostro paese. Ma a partire dagli anni Venti del secolo scorso il tifo, nella sua accezione più moderna, ha agito su uno strato ancora più profondo: quello della storia popolare dell’Italia. Il doppio significato attribuito a quella stessa parola non è certo casuale. E il fatto che soltanto la lingua italiana possieda questa caratteristica esprime bene l’impatto che la passione sportiva ha avuto sulla società italiana dal Novecento ad oggi.

In Tifo. La passione sportiva in Italia (il Mulino, 2022, pp. 280, euro 22), gli storici Daniele Marchesini e Stefano Pivato descrivono molte circostanze in cui lo sport ha segnato la vita quotidiana degli italiani. E nel farlo sollecitano il lettore a far riemergere i ricordi della propria esperienza personale legata alla passione sportiva. Il potere di queste pagine non consiste però soltanto nell’evocare eventi impressi nella nostra memoria di tifosi e di tifose; ma anche nel raccontare molte altre storie di sport tramandate di generazione in generazione.

In Tifo. La passione sportiva in Italia (il Mulino, 2022, pp. 280, euro 22), gli storici Daniele Marchesini e Stefano Pivato descrivono molte circostanze in cui lo sport ha segnato la vita quotidiana degli italiani
La copertina del saggio In Tifo. La passione sportiva in Italia (il Mulino, 2022, pp. 280, euro 22), di Daniele Marchesini e Stefano Pivato, pubblicato da il Mulino (2022)

È il caso, ad esempio, delle gare ciclistiche della prima metà del Novecento, e dei loro protagonisti. La rivalità tra Fausto Coppi e Gino Bartali generò, com’è noto, vere e proprie tifoserie, in cui il valore dell’impresa sportiva cedeva talvolta il passo al giudizio morale sulla loro vita privata: «da una parte il pubblico peccatore (Coppi), dall’altra il marito e padre esemplare (Bartali)». Gli autori sottolineano la divisione tra tifoserie citando anche alcune lettere indirizzate ai due campioni da persone di tutte le età. Ma era un’Italia diversa, in cui c’era chi scriveva a Coppi chiedendo una vittoria e chi… una bicicletta. E diversa era la percezione stessa delle imprese sportive: in quegli anni, in assenza delle dirette tv,

«La radio, soprattutto nelle fasce adolescenziali, accentua la dimensione favolistica del racconto» (p. 167).

Gino Bartali e Fausto Coppi (1940). Foto di ignoto, da collezione privata, in pubblico dominio

Ma il titolo di sport nazionale, che il ciclismo manteneva da decenni, era destinato di lì a poco a passare di mano. Nel 1960, con la morte di Coppi e il passaggio alla motorizzazione di massa, scrivono gli autori,

«è come se la gente […] s’accorgesse che un mondo non semplicemente sportivo è finito: quello della consonanza piena tra popolazione e ciclismo» (p. 108).

Molte città italiane conservano ancora oggi le cicatrici di questa ferita: sono i vecchi velodromi, che malgrado i successi internazionali del ciclismo su pista versano oggi, spesso, in stato di abbandono.

Anche i «luoghi del culto» della passione sportiva cambiano infatti nel corso del tempo. In origine fu lo sferisterio: arena ante litteram per il «gioco del pallone», che diventa nel corso dell’Ottocento «il luogo più affollato della socialità urbana» (p. 23), al punto da spingere le pubbliche autorità ai primi provvedimenti per la tutela dell’ordine pubblico. Poi arriva lo stadio: grattacapo per gli amministratori pubblici, spazio da inventare per le archistar, ma soprattutto luogo di svago della massa dei tifosi:

«Per la durata della loro permanenza nell’arena, nulla di ciò che accade in città li preoccupa»,

secondo le illuminanti parole di Elias Canetti.

La Boca, Buenos Aires: graffiti di Diego Armando Maradona. Foto di Cadaverexquisito, CC BY-SA 3.0

Benché nascano quasi sempre come spazi polifunzionali da destinare a diversi sport, secondo un’idea di «stadio universale», questi impianti sono oggi riconosciuti nel mondo come «cattedrali del calcio», con poche eccezioni (su tutte, Wimbledon). Negli stadi si consumano i riti di una «religione laica». E i suoi «apostoli» ricevono onori e gloria nelle modalità più diverse. Anche mentre sono all’apice del loro successo: come osservano giustamente Marchesini e Pivato, l’onomastica è uno dei primi segnali di questo culto (come possono testimoniare le centinaia di Diego Armando nati a Napoli negli anni Ottanta). Ma ancor di più con la loro scomparsa. Come avviene nelle forme “classiche” della monumentalità, con le statue di alcuni calciatori fuori dagli stadi; o con quelle dell’arte contemporanea: esemplare è, a Coriano (Rimini), la

«grande marmitta che ogni domenica, all’imbrunire, si accende e spara una fiamma per 58 secondi»,

58 come il numero di gara di Marco Simoncelli, il giovane motociclista morto in pista a Sepang nel 2011. Fino ad assistere, in un caso eccezionale, a una emblematica sovrapposizione di culti: è il caso della basilica di Superga, che dopo la tragedia del Grande Torino

«ha come perso il carattere originario, religioso e regale insieme, di cappella ufficiale dei Savoia. È diventata luogo sacro per la tifoseria granata, tempio di una sorta di religione civica» (p. 104).

Il Grande Torino nella stagione 1945-46. Foto di ignoto in pubblico dominio

Il saggio di Marchesini e Pivato menziona molti altri aspetti peculiari del tifo: il modo in cui viene vissuto da chi risiede all’estero; i giochi dei bambini, tra biglie e figurine; il Totocalcio; la produzione poetica, musicale e cinematografica; l’intervento della politica. Ciascuno di essi rilancia personalità ed eventi più o meno noti, ma tutti utili a comprendere l’evoluzione della passione sportiva in Italia. Un paese dove gli sport non sono tutti uguali, come le recentissime polemiche sulla copertura giornalistica della vittoria ai mondiali maschili di volley hanno dimostrato. Ma il tifo sa appropriarsi anche di contenuti creati per altri sport, o per nessuno sport. E così anche la nuova «generazione di fenomeni» della pallavolo maschile viene celebrata da un brano degli Stadio del 1991, poi riutilizzato dal giornalista Jacopo Volpi per la nazionale di Julio Velasco degli anni Novanta.

«Da allora – scrivono Marchesini e Pivato – la canzone degli Stadio è diventata una sorta di inno che ricorda una stagione irripetibile della pallavolo italiana. Quel motivo è uno dei pochi che nella storia della canzone italiana celebrano, peraltro in maniera indiretta, uno sport diverso dal calcio e dal ciclismo» (p. 185).

 

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Il libro recensito è stato gentilmente fornito dalla Casa Editrice.

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