L’ALTRA ELENA DI EURIPIDE:
Da imago funesta a vittima innocente della Τύχη
Articolo e foto a cura di Elly Polignano e Veronica Piccirillo
Elena, nome proprio di persona di genere femminile che, in un gioco paraetimologico di matrice eschiliana, verosimilmente affine a quello del classico nomen omen, trae la sua origine dal tempo aoristo (helein) del verbo greco airéo e assume il peculiare significato di ‘distruggere’ (cfr. Aesch. Ag. 681 – 698). È proprio in tal modo che viene identificata la donna che è comunemente considerata la causa della guerra di Troia, della totale distruzione di questa città e dei suoi abitanti e, infine, dell’infelicità degli Achei, costretti a combattere per il desiderio di Menelao di ricondurre sua moglie in patria e di vendicare l’oltraggio subito da Paride, il principe troiano che gliel’aveva sottratta.
Ma la bella troiana fu davvero motivo del sanguinoso scontro che tenne impegnati i Greci e i Troiani per dieci lunghi anni?
Nella tragedia euripidea è infatti presente un’altra versione del mito, diametralmente opposta rispetto a quella generalmente conosciuta: nel prologo si narra che la donna non sia mai giunta effettivamente ad Ilio e che, al suo posto, sia stato mandato un eidolon, «un fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo e simile in tutto» a lei (cfr. Eur. Hel. 32 – 33). La vera Elena, invece, sarebbe stata portata da Hermes nel caldo Egitto, dove avrebbe trascorso tutti i dieci anni della guerra di Troia, celata all’interno della reggia di Proteo. La scena, dunque, si apre proprio con l’immagine della regina di Sparta supplice nei pressi della tomba di quest’ultimo, nel tentativo sfuggire alle forzate nozze con suo figlio Teoclimeno che, subito dopo la morte di Proteo, aveva ripetutamente cercato di sedurla e di renderla sua sposa, senza successo. Improvvisamente, però, Elena vede arrivare dinanzi a sé Teucro, un messaggero che la informa riguardo alla tempesta che aveva da poco colpito le navi del marito Menelao, a seguito della quale il re stesso avrebbe purtroppo perso la vita insieme ai suoi compagni. La donna, in preda alla disperazione e ormai priva di speranza, dopo essersi consultata con il coro, decide di rivolgersi a Teonoe, sorella di Teoclimeno e profetessa in grado di prevedere il futuro, per ottenere maggiori informazioni sull’accaduto. Nel frattempo Menelao, erroneamente creduto morto, a seguito del naufragio, approda proprio sulle coste egiziane con il suo intero equipaggio e con il fantasma di Elena, che crede di aver recuperato da Troia, e si reca al palazzo reale per chiedere soccorso. Qui, inizialmente respinto da un’anziana serva, incontra fortuitamente sua moglie che, dopo qualche momento di titubanza, tenta di convincerlo della sua reale identità. Nonostante i dubbi iniziali, il re si persuade ben presto della veridicità delle sue parole, confermate anche dall’arrivo di un messaggero proveniente dalla ciurma che lo informa della scomparsa del fantasma di Elena. Finalmente ricongiunti, i due si recano da Teonoe per supplicarla di non rivelare nulla della fortuita agnizione a Teoclimeno. Ricevuto il placet della profetessa, i coniugi escogitano un piano per fuggire dal palazzo: facendo credere al re che Menelao fosse morto e che l’uomo lì presente fosse solo un semplice marinaio testimone autoptico dell’accaduto, Elena avrebbe esternato la necessità di celebrare il funerale per il marito secondo le usanze greche. Teoclimeno, pertanto, avrebbe dovuto fornirle una nave, un equipaggio, una pira funebre e altri accessori fondamentali per lo svolgimento del rito. Il re egiziano, totalmente convinto della buona fede delle parole della donna, soprattutto dopo averle strappato la promessa di ottenerla in moglie una volta eseguito il funerale, accetta. A questo punto Elena e Menelao, salpati sull’imbarcazione, si allontanano dalla scena, vittoriosi.
Sono proprio questi i momenti più icastici della messa in scena della tragedia euripidea, egregiamente rievocati nelle rappresentazioni tenutesi nel Teatro Greco di Siracusa per la regia di Davide Livermore. Ogni anno, infatti, la fondazione INDA (Istituto Nazionale Dramma Antico) cura la rappresentazione di due tragedie e di una commedia del teatro greco di età classica, occupandosi della loro scenografia, coreografia e rivisitazione. Nel 2019, nei mesi di Maggio, Giugno e Luglio, si tiene la 55esima stagione teatrale che prevede le reperformance di tre diversi drammi: l’Elena e le Troiane di Euripide e la Lisistrata di Aristofane. Nella prima, si può cogliere, fin da subito, la novità dirompente, ora come allora, di un’opera che non è ascrivibile al genere tragico stricto sensu ma che si presenta, piuttosto, come un ibrido a metà fra tragedia e commedia. Grazie alla sagace traduzione del prof. Walter Lapini, ordinario di Letteratura Greca presso l’Università degli Studi di Genova, è infatti possibile individuare la fedele connessione col testo antico, rappresentata dai vivaci dialoghi dei personaggi e dalle loro tragicomiche avventure in terra egiziana.
Eccellente coadiuvante di una siffatta resa italiana del dramma, è sicuramente la scenografia, che contribuisce a sottolineare le caratteristiche peculiari di ciascun personaggio. Significativo, in particolare, è il rapporto di Elena con la sua bellezza, in quanto appare evidente come quello che dovrebbe essere un pregio per ogni donna comune, diventi una condanna per la regina di Sparta, che è in continuo dialogo-monologo con la sua stessa immagine, riflessa nei numerosi specchi, portati di volta in volta sulla scena, e nell’acqua sottostante. Proprio grazie a quest’ultimo espediente scenico, diviene lampante l’idea della frammentarietà dell’imago di Elena che, come in un assedio, si ritrova completamente accerchiata dai riflessi di se stessa, vittima innocente e impotente dinanzi al volere degli dèi. Tale tematica, poi, risulta ancora più esasperata dalla voce e dal pianto disperato di un’ulteriore Elena-narratrice, di età avanzata, il cui volto, ormai segnato dalle rughe, aleggia etereo sulla scena, sino al termine della rappresentazione, attraverso una videoregistrazione riprodotta dagli schermi sovrastanti.
Molto suggestiva è la presenza, all’interno del basamento scenico, di un grandissimo bacino d’acqua, che oltre a svolgere la funzione, precedentemente accennata, di specchio della figura di Elena, costituisce principalmente il luogo su cui il coro e gli attori di volta in volta recitano e si muovono, contribuendo ad avvolgere, attraverso il suono dello scrosciare dell’acqua, l’intero teatro all’interno di un’atmosfera incredibilmente magica e surreale. Elena, ad esempio, viene trainata da una poltrona mobile galleggiante, così come i superstiti degli Achei e lo stesso Menelao si aggrappano alla loro nave ormai in rovina. Bicchieri e suppellettili per metà in acqua e per metà fuori adornano la scena, dominati da un’enorme arpa posta su di un piedistallo che funge, anch’esso, da ulteriore piattaforma.
Interessante risulta poi l’associazione del personaggio della profetessa Teonoe a quello di una cantante lirica. Attraverso questa scelta, il regista è stato in grado di rendere perfettamente tangibile l’idea dell’evanescenza, del mistero e dell’autorità delle parole pronunciate dalla veggente, una figura spesso ambigua e impenetrabile che, in questo caso, viene resa ancora più eccentrica dalla voluminosità del suo costume dorato. Altra parte distintiva della scenografia è, infatti, l’abbigliamento degli attori in scena: al posto dei classici abiti greci, si è preferita una soluzione innovativa e allo stesso tempo “straniante”. Tutti i personaggi (esemplare è, in particolare, il caso di Teonoe menzionato prima) sono vestiti come raffinati aristocratici francesi di fine Ottocento. Il coro, che nell’Elena euripidea è canonicamente costituito da donne (o meglio, da uomini con maschere femminili, dal momento che nel teatro greco classico non era permesso alle donne di recitare), è invece arricchito dalla presenza di soli uomini. Questi, inizialmente coperti da ampi veli neri, solo in un secondo momento lasciano intravedere la loro caratteristica peculiarità, ballando e danzando per tutta la tragedia in una sublime coreografia.
Sulla medesima scia innovativa si pone, inoltre, anche la scelta del finale della reperformace firmata Livermore. Si tratta, infatti, di una conclusione del tutto estranea al testo greco: Elena e Menelao riappaiono insieme sulla scena dopo la fuga dall’Egitto e, sempre insieme, percorrono lo spazio della superficie liquida del basamento fino a raggiungerne il centro, dove rallentando gradualmente ogni loro movimento, cominciano a sembrare sempre più deboli e malfermi. Menelao non tarda ad accasciarsi esanime dinanzi alla poltrona galleggiante di Elena, mentre quest’ultima scopre improvvisamente il suo volto irrimediabilmente invecchiato e il capo dai lunghi capelli canuti, rendendo di carne e ossa l’immagine dell’anziana Elena-narratrice che l’aveva accompagnata per l’intero dramma mediante la videoregistrazione. L’idea di presentare un’Elena vecchia e ormai prossima alla morte ci riporta alla memoria la rivisitazione di Ghiannis Ritsos, in cui la protagonista, ormai completamente annientata dal disfacimento del suo corpo, rievoca costantemente un passato glorioso e assai lontano. Nel caso della rappresentazione di Livermore, invece, l’introduzione di una novità del genere, potrebbe contribuire a rendere ancora più evidente e tangibile il dramma vissuto da Elena, che solo da anziana riesce a recuperare le schegge della sua funesta imago, garantendone una labile unità, seppur in prossimità della morte.
Alla luce di tutto ciò, si potrebbe affermare che, attraverso una grande varietà di mezzi ed espedienti adatti al mondo contemporaneo, il regista sia riuscito a ricreare la medesima atmosfera e a suscitare, nel pubblico di oggi, lo stesso stupore e lo stesso sbigottimento, che, nel V sec. a. C., gli antichi spettatori dovevano provare dinnanzi ad una rappresentazione così inaspettata ed innovativa come quella dell’Elena di Euripide.