EDUCAZIONE CLASSICA: NASCERE E CRESCERE NELL’ATENE DI PERICLE DI DANIELLE JOUANNA

Ci si è chiesti cosa significasse nascere e crescere nell’Atene del V a.C., ovvero l’età classica che la vide brillare, prima, e capitolare, verso la fine dello stesso secolo.

Risposte a questo interrogativo le possiamo trovare  leggendo uno dei saggi di Danielle Jouanna, storica ed ellenista francese, autrice di un volume sull’educazione ateniese in quell’epoca: Nascere e crescere nell’Atene di Pericle (L’enfant grec au temps de Périclès, 2017).

La copertina del saggio di Danielle Jouanna, Nascere e crescere nell'Atene di Pericle, pubblicato da Carocci Editore (2019) nella collana Frecce
La copertina del saggio di Danielle Jouanna, Nascere e crescere nell’Atene di Pericle, pubblicato da Carocci Editore (2019) nella collana Frecce

Tanti sono gli studi effettuati sull’Atene del V a.C. e diverse sono le fonti che ci consentono di tracciare di quest’epoca un profilo più o meno fedele (anche se del patrimonio storico-letterario ci è giunta soltanto una parte e, a volte, anche lacunosa). L’età classica rappresentò per Atene il momento di più alta espressione socio-culturale; infatti, nel V a.C., si poté assistere al culmine della democrazia e alla produzione delle opere letterarie che, ancor oggi, affasciano antichisti e semplici ammiratori. Questa è l’epoca che ha fatto da palcoscenico a politici e generali quali Temistocle, Alcibiade, Pericle, ma anche storici, filosofi e scenici come Erodoto, Tucidide, Euripide, Aristofane, Parmenide, Protagora, Socrate… giusto per citarne qualcuno! Il V a.C. è il periodo storico della rivincita greca contro il temibile nemico persiano, della ricostruzione dell’Acropoli ateniese e, anche, della guerra, probabilmente, più sanguinosa dell’antichità greca: quella che vide contrapposte Sparta e Atene.

Il Partenone oggi
Il Partenone oggi. Foto Flickr di Steve Swayne, in pubblico dominio

L’età classica pone lo studioso e l’appassionato dinanzi ad una serie di domande che mirano a chiarirne la portata; tra queste, quella che risulta essere meno scontata e, al contempo, interessante per decifrare le caratteristiche di tale periodo è: se fossimo nati nell’Atene periclea, che educazione ci sarebbe stata impartita?

A questa domanda è possibile rispondere con il saggio di Jouanna, che mira a scandire il processo formativo dei giovani greci dall’infanzia sino ai diciotto anni, epoca che li consacrerà alla storia.

Conviene fare un passo indietro e partire dall’atto che sancisce l’unione tra uomo e donna: il matrimonio.

Ad Atene, il matrimonio era ritenuto quasi del tutto obbligatorio; l’uomo solitamente si sposava intorno ai vent’anni, dopo aver espletato i primi due anni di servizio militare, e la donna intorno ai quindici (molto più giovane!); di fondamentale importanza era, per l’uomo, avere una sposa ‘fertile’ e assicurare educazione al nascituro che, tipico per le società antiche, si sperava fosse di sesso maschile! Per la donna era fondamentale, invece, assicurare una prole legittima al marito; questa era tale se nata dall’unione di due cittadini ateniesi (infatti, Atene non era soltanto abitata da cittadini con pieni diritti, ma anche da schiavi, meteci, ovvero stranieri che vivevano in città, ma privi degli stessi diritti di un cittadino ateniese, ecc.).

L’essere ‘fertile’ per una donna era condizione fondamentale, soprattutto per la prosecuzione del matrimonio; infatti, non era raro che l’uomo ripudiasse la donna perché quest’ultima non poteva generare l’erede legittimo (ma le cause della fine di un matrimonio non si esaurivano soltanto con la ‘fertilità’ o meno della donna, ve ne erano diverse e Jouanna ne enumera qualcuna – per fare un esempio: Pericle si separò consensualmente dalla prima moglie non perché questa fosse ‘sterile’, ma semplicemente perché tra di loro si era esaurita quella ‘fiamma amorosa’ utile al mantenimento della coppia).

Ma come capire se una donna fosse ‘fertile’ o meno? Bisogna innanzitutto constatare, come ovvio che sia, che, nel V a.C., le conoscenze mediche, sebbene portate avanti dalla scuola di Ippocrate di Cos (all’avanguardia per l’epoca!), erano molto limitate, soprattutto per quanto riguarda l’ispezione interna del corpo umano; esistevano, però, delle tecniche (che oggi sarebbero impensabili) che permettevano di capire se la donna potesse o meno procreare, ad esempio bruciare degli aromi e vedere se dal basso questi arrivassero sino alla bocca della donna, in caso positivo, ella poteva generare, al contrario era ‘sterile’.

Ma qualora la donna fosse risultata ‘sterile’ cosa accadeva? Era fondamentale per l’uomo assicurare che qualcuno potesse ricevere l’eredità di famiglia; così come ai giorni nostri (ma con le dovute distinzioni), esisteva anche allora la possibilità di adottare un figlio. L’istituto dell’adozione era praticato in Atene e la storica francese enumera una serie di fonti (Lisia, Demostene) che comprovano l’esistenza dello stesso. Non tutti potevano adottare, ma soltanto chi non avesse già un figlio maschio ed era importante, anche, che il padre del bambino adottato, giudicando l’eredità concessa dal ‘nuovo padre’, ritenesse l’adozione giusta e lecita. Ovviamente il bambino adottato non riceveva il nome di famiglia, ma soltanto l’eredità (spesso quest’ultima era motivo di diverse cause giudiziarie come dimostrato dalle diverse orazioni giunteci).

Passiamo ora a trattare la nascita dei figli e la descrizione dei momenti ludici e educativi che attendevano i giovanissimi rampolli degli ateniesi.

Quando nascevano i neonati, differentemente dalle nostre usanze e abitudini, venivano portati via dalla madre e dati, durante i primissimi giorni della loro vita, al padre che rappresentava la prima figura ‘guida’ del bambino o bambina; questo accadeva perché ad Atene si credeva che il sangue della donna, dopo il parto, risultasse essere ‘impuro’ e che lei necessitasse di diversi giorni di convalescenza per poter tornare operativa ed allattare il figlio o la figlia.

Ma la primissima separazione del neonato dalla madre non era dettata soltanto da un motivo, diremmo, ‘sanitario’, ma anche da riti e credenze che erano finalizzati a presentare il figlio o la figlia alla famiglia e ai conoscenti e a farlo o farla accettare dalla società stessa.

L’iniziale funzione del padre era legata a dei rituali che scandivano le prime fasi di vita del neonato, ovvero le Anfidromie, la Dekàte e la presentazione alla Fratria.
Le Anfidromie erano rituali finalizzati a presentare il neonato ad un numero esiguo di persone (solitamente soltanto la famiglia!) e prevedevano che il padre, dopo aver fatto collocare un focolare, ci girasse intorno tenendo in braccio il proprio figlio ed in seguito egli ordinasse un banchetto per onorare il nuovo nato ed eseguisse dei sacrifici.
La
Dekàte era praticata, stando alla titolatura della stessa cerimonia, il decimo giorno dalla nascita del figlio o della figlia; era un rituale destinato a presentare il neonato ad una cerchia più ampia di persone, non soltanto la famiglia, ma anche conoscenti ed amici. Inoltre, è fondamentale sottolineare che durante questa cerimonia, il figlio assumeva il nome di famiglia che, solitamente, era lo stesso del nonno (ma come spiega Jouanna, citando diverse fonti, ad Atene c’erano casi in cui i figli prendessero un nome diverso da quello del nonno; spesso erano nomi che avevano dei significati epidittici: ad esempio, Aristofane era colui che ‘eccellente si mostrava’).
Infine, c’era la presentazione alla Fratria (un gruppo di persone, di varia grandezza – solitamente medio-piccola -, che aveva una funzione religiosa) che avveniva durante il terzo giorno della festa delle Apaturie, durante il mese di Pianepsione (ottobre-novembre); questo rituale consacrava l’accettazione del neonato che era, al contempo, definito ‘legittimo’.

Dopo questo primissimo breve periodo, entrava in gioco la figura della madre e di tutto l’universo femminile. La tradizione letteraria ci ha tramandato la presenza, nel nucleo familiare, non soltanto della madre (come ovvio che sia), ma anche della nutrice. La madre aveva la funzione di allattare, quindi nutrire, il proprio il neonato, la nutrice, sia in contesti familiari aristocratici che in quelli più disagiati, assisteva la donna nella crescita del figlio o della figlia.

Durante, quindi, i primi anni d’età, sia i bambini che le bambine vivevano in un contesto prettamente femminile; questo poteva essere un problema soprattutto per i maschi che, con una figura paterna sempre molto meno presente, rischiavano di crescere privi di una vera e propria ‘guida’ maschile. Anche in questo caso, la letteratura ci ha concesso di introdurre nel nucleo familiare un’ulteriore figura assistenziale, ovvero il pedagogo (letteralmente: colui che guida i paides ‘bambini’); questo era solitamente scelto dal padre del bambino ed era uno schiavo (come la nutrice). Poteva accadere che sia la nutrice che il pedagogo venissero affrancati per particolari meriti durante la fase educativa del figlio.

Oggigiorno si potrebbe incorrere nell’errore di considerare il pedagogo a guisa di un ‘professore’; niente di più errato! Egli aveva la funzione di sorvegliare il bambino ed ammaestrarlo moralmente. Non era tenuto ad insegnargli né a leggere né a scrivere, compito che sarà del maestro. L’introduzione di questa figura maschile nel nucleo familiare era finalizzata ad assicurare al figlio maschio la presenza di una ‘guida’ dello stesso sesso che potesse, in un certo qual modo, controbilanciare l’universo femminile cui era stato abituato.

Ma tra i due e i sette anni come occupavano il tempo i bambini e le bambine ateniesi? Anche in questo caso i testi letterari ci aiutano nel rispondere a quest’interrogativo.

In maniera non dissimile dai giorni nostri, capitava che bambini e bambine restassero affascinati dai racconti (similmente alle ‘storielle’ che oggi madri e padri raccontano ai propri figli per farli addormentare); gli argomenti di queste storie erano basati, soprattutto, sulla mitologia, sulle peripezie di Ulisse e sulle favole di Esopo (che avrà giocato un ruolo fondamentale per l’infanzia degli ateniesi!).

Oltre ai racconti, anche i giochi hanno avuto un ruolo fondamentale nella crescita di bambini e bambine. Siamo in grado di ricostruire, in parte, il mondo ludico infantile dei giovani ateniesi (e, anche, dei greci in generale) grazie alle pitture vascolari e a ciò che le tombe dei bambini ci hanno restituito. Similmente ai nostri giorni, i giovanissimi ateniesi erano in grado di dilettarsi, da soli o in compagnia, con una serie di giocattoli che avevano una funzione non soltanto etica, ma anche pragmatica: evitavano che i bambini e le bambine potessero impigrirsi nell’ozio!
Le tipologie di giocattoli rinvenuti e dedotti dalle diverse pitture vascolari sono varie: dai sassolini alle altalene, all’uso di trottole o, addirittura, dei piccoli carretti che erano trascinati, soprattutto dai bambini, col fine di simulare una guerra; anche l’uso dei dadi era praticato e la tradizione letteraria (Plutarco) ci ha tramandato l’immagine di un piccolo Alcibiade come un vero ‘asso’ in questo gioco. Inoltre, va aggiunto che la scoperta della presenza di bambole ha confermato l’idea che anche le bambine potessero dedicare parte della giornata alla leggerezza ludica. Ma i momenti ludici non erano soltanto riservati ai più piccoli; le campagne di scavo ci hanno restituito, probabilmente, uno dei vasi più belli e rappresentativi della pittura vascolare dell’antichità greca, ovvero il vaso di Exekias, pittore e ceramografo vissuto nel VI a.C., che raffigura Aiace ed Achille mentre si dilettano con un gioco da tavolo nella pausa dell’assedio troiano.

Achille e Aiace giocano nell’anfora attica a figure nere di Exekias. Foto di Jakob Bådagård, in pubblico dominio

Un altro elemento fondamentale per i bambini tra i due e i sette anni era la funzione del rito. Nel saggio, Jouanna insiste su una particolare cerimonia definita ‘dei chòes’, ovvero la ‘Festa dei fori’ cui partecipavano i bambini che avevano compiuto il terzo anno di età. Questa festa era celebrata in onore di Dioniso e durava tre giorni; durante il secondo giorno, venivano offerti dei doni ai bambini consistenti in piccoli vasi ‘chòes’ dalla forma arrotondata che, solitamente, erano utilizzati dai più grandi durante le bevute di vino (infatti, i chòes richiama una tipologia di vaso, ovvero l’oinochòe, destinato a contenere vino). Ma come essere certi dell’utilizzo di piccoli chòes per bambini? L’autrice, infatti, afferma, prendendo in considerazione le rappresentazioni vascolari tramandataci, che questi:

«Sono decorati con scene infantili, spesso raffiguranti giocattoli; talvolta, viene ritratto un bambino che si avvicinava a una tavola sulla quale è posto uno di questi recipienti, il che sembrerebbe far riferimento ai rituali celebrati in quei giorni [la festa in onore di Dioniso]».

Oltre ai giochi ed ai rituali, non era raro, nell’Atene del V a.C., ravvisare la presenza di bambini ai processi; spesso i padri erano accusati ed era per loro obbligo presentarsi in giudizio per perorare la propria causa. Ma qual era la funzione del bambino ad un processo? Semplicemente spingere alla commiserazione il giudice affinché potesse assolvere il padre. Inoltre, anche la letteratura scenica (tragedia e commedia) ci attesta la presenza di bambini sulla scena (spesso la figura del bambino era funzionale alla trama della rappresentazione teatrale), ma non mancavano casi in cui i neonati, ad esempio, erano finti, ovvero raffigurati con degli stracci avvolti tra di loro o con bambole.

Una volta raggiunta l’età di sette anni, finalmente i bambini potevano cominciare quello che, al giorno d’oggi, definiamo periodo scolare. Una precisazione è d’obbligo: l’Atene del V a.C. si dimostra differente dalle altre poleis greche, l’istruzione ‘scolastica’ era riservata soltanto ai maschi. Le bambine, tra i sette ed i quattordici anni, erano destinate all’apprendimento dell’arte del filare e tessere e, anche, ad amministrare l’economia domestica. In questo Atene si mostra differentemente rispetto alle altre città-stato greche, infatti, a Sparta, per esempio, non era raro vedere una donna in palestra, ovvero ricevere la stessa istruzione morale di un maschio. A conferma di questo, ci risulta utile menzionare una commedia di Aristofane, la Lisistrata, portata in scena alle Lenee del 411 a.C., che presenta il personaggio femminile di Lampitò, amica della protagonista (Lisistrata, per l’appunto), che mostra una un corpo tonificato e dedito alla palestra tanto da fare invidia a tutte le donne presenti sulla scena.

Come suddetto, i bambini dai sette ai quattordici anni, accompagnati dal pedagogo, cominciavano il proprio iter scolastico. In cosa consisteva principalmente? Come primo gradino, ad Atene si prestava attenzione all’insegnamento delle ‘lettere’ (leggere e scrivere); le modalità di apprendimento erano diverse e dipendevano, spesso, dalle condizioni economiche delle famiglie. I più ricchi potevano permettersi un maestro a domicilio; i meno abbienti, al contrario, potevano mandare i propri figli in luoghi opportuni, muniti di aule, dove seguiti da un maestro, apprendevano i primi rudimenti della scrittura e della lettura. Ma non erano soltanto le ‘lettere’ l’argomento d’insegnamento, anche la musica giocava un ruolo fondamentale (sull’entrata della Accademia platonica, per esempio, le due discipline fondamentali cui ci si doveva accostare erano la geometria e la musica, a riprova dell’importanza affidata dagli antichi greci a quest’arte). Cosa imparavano maggiormente i bambini durante le lezioni musicali? Soprattutto a suonare la cetra, lo strumento prediletto dai greci, ma non era raro, anche, l’apprendimento all’uso del flauto, anche se non tutti desideravano apprenderne l’utilizzo perché, a detta di alcuni, questo favoriva la deformazione del viso. Infine, i bambini erano accompagnati in palestra dove, seguiti da paidotrìbes (maestro di ginnastica) non soltanto fortificavano il loro corpo, ma divenivano dei kalòi kaghatòi (belli e buoni) che era l’ideale morale più importante per gli antichi greci.

L’istruzione, però, era riservata soltanto ai maschi e ai figli di cittadini ateniesi; certamente schiavi, meteci, ecc. non avevano la possibilità di accedere all’iter scolastico. I figli dei meno abbienti erano solitamente avviati, sin da subito, alla carriera lavorativa.

Col termine del periodo scolastico e prima della maggiore età (diciotto anni), i ragazzi potevano dedicarsi all’apprendimento di ulteriori tecniche che avrebbero, in un certo qual modo, indirizzato la loro futura carriera di cittadini ateniesi.

Dopo aver imparato a leggere e a scrivere, a suonare la cetra o il flauto e ad allenare il proprio corpo, i giovani greci potevano dedicarsi, per esempio, all’arte della guerra, ovvero nell’allenare il proprio corpo e nell’affinare le proprie capacità belliche col fine di renderli dei valenti e coraggiosi soldati, difensori della patria.

C’era chi si dedicava all’arte della politica, in questo caso i ragazzi apprendevano meglio l’utilizzo della parola e la retorica. Conviene, a questo punto, prendere brevemente in considerazione un evento fondamentale nella storia ateniese del V a.C., ovvero l’arrivo dei sofisti (coloro che possiedono la sofìa, la saggezza) ad Atene (uno di questi fu Gorgia di Leontini, probabilmente il più famoso di tutti).

La sofistica ad Atene ha impattato, soprattutto, sull’educazione dei più giovani, erano proprio i sofisti che ammaestravano i rampolli degli ateniesi nell’arte della parola e ne facevano dei validissimi oratori (anche se, in seguito, la stessa sofistica è stata messa in discussione, soprattutto dai tradizionalisti, perché fuorviava la mente dei giovani e ne corrompeva la morale, ma non conviene dilungarci qui sull’argomento!).

L’utilizzo della retorica e della saggezza era imprescindibile per chi dovesse approcciarsi al mestiere di politico.

L’arrivo dei sofisti ad Atene ha favorito, anche, il crescere sempre più osmotico di scienze come la matematica, l’astronomia, l’astrologia, ecc. che spinse i giovani a prediligere la via della scienza e a divenire dei veri e propri scienziati nei diversi campi del sapere.

Infine, giunti alla maggiore età, i ragazzi, ormai quasi pienamente formati, venivano iscritti dal padre nel demo, ovvero territori con grandezza variabile che risultavano delle vere e proprie unità amministrative (Clistene, nel VI a.C., divise l’Attica in 139 demi). L’iscrizione al demo, dopo l’iniziale presentazione alla Fratria, come suddetto, rappresentava la vera e propria accoglienza del giovane ateniese tra i cittadini e, inoltre, rappresentava l’inizio dell’Efebia, ovvero il periodo di due anni in cui i ragazzi svolgevano il percorso militare. Finalmente, con questo ultimo atto, il ragazzo poteva consacrarsi alla storia e concorrere definitivamente alle sorti della città.

(La traduzione del passo citato dal saggio di Danielle Jouanna è a cura di Fabrizio Buscemi, Nascere e crescere nell’Atene di Pericle, Carocci Editore, 2019)

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