STORIE MERAVIGLIOSE DI GIOVANI GRECI DI LAURA PEPE. LA GIOVENTÙ, UN’ETÀ INCONTROLLABILE
La giovane età è foriera di luci ed ombre, quest’ultime – soprattutto nel mondo antico (ma ancor oggi, se si esamina attentamente) – creano il terreno fertile per corroborare i giudizi poco lusinghieri nei confronti della gioventù e dei suoi capostipiti. Una questione annosa e ricca di stereotipi.
Oggi si è più convinti che mai del fatto che spetta ai giovani – di ogni rango – reggere le sorti del mondo. A loro si desidera lasciare un posto migliore e far sì che possano governarlo con altrettanta abnegazione. Sui giovani pesano giudizi positivi e negativi, ma sempre su di essi si fa affidamento quando si pensa al futuro.
Oggi, quando si pensa alla giovane età, lo si fa riferendosi a quel periodo nel quale, ovvio, si devono acquisire le competenze tali da potersi un giorno affermare. Non dissimile era la situazione per chi era giovane nell’antica Grecia, anzi! Ma è altrettanto vero che, nel mondo antico, sulla gioventù pesava fortemente il giudizio degli adulti e degli anziani, soprattutto (dai trent’anni in su, si era ormai usciti dall’età giovanile).
A presentare le sorti e i caratteri di alcuni dei più illustri giovani che hanno animato lo scenario dell’antica Grecia è Laura Pepe, docente di Istituzioni di diritto romano e diritto greco presso l’Università degli Studi di Milano, nel libro Storie meravigliose di giovani greci, edito da Laterza.
Nel libro l’autrice ci guida tra i meandri della gioventù nell’antica Grecia, di come essa fosse giudicata. Su questo pone una lente d’ingrandimento, soprattutto nelle pagine iniziali.
Non sempre i più anziani riponevano fiducia sui giovani, anzi! Spesso su di essi gravava il peso della loro intemperanza, temerarietà, della poca dimestichezza con le cose e della volubilità. Oggi, invece, sebbene le critiche non siano passate di moda, si fa leva sui giovani, eccome! Ma per gli antichi non era concepibile affidarsi totalmente ad un’età instabile. Al massimo i giovani dovevano agire, ma a decidere erano i più anziani. L’autrice, scrive, infatti:
“Solo in un mondo rovesciato e caotico si potrebbe tollerare di attribuire potere alle nuove leve […]”.
Un’affermazione che parla da sé.
Un elemento in comune tra le due epoche, antichità e contemporaneità, e che l’autrice sottolinea a tinte forti, riguarda il fatto che la gioventù non può essere incastonata tra due mura, tra due paletti che ne segnano l’inizio e la fine. D’altronde si può essere giovani anche ad ottant’anni. E di questo ne erano convinti anche gli antichi greci (sebbene ad ottant’anni ci arrivavano difficilmente, ma questa è un’altra questione).
I giovani presentati nel volume dall’autrice sono l’emblema della Grecia. Essi sintetizzano tutti quei concetti su menzionati (temerarietà, incontrollabilità, volubilità, ecc.), ma è altresì vero che sono i protagonisti della scena. Personaggi dai caratteri forti e dalle mille risorse. Giovani che hanno segnato un’epoca e che riecheggiano nelle opere di scrittori e poeti successivi. Insomma, giovani che hanno fatto la storia. E sono proprio delle storie quelle raccontate, con stile chiaro e appassionante, da Laura Pepe nel suo volume.
Ad aprire la scena è l’eroe per eccellenza, colui che ha fatto della sua ira l’emblema della sua vita, già segnata prima della sua nascita, Achille. Su di lui possono spendersi così tante parole da tirar fuori un libro di oltre mille pagine, ma la sua personalità dev’essere racchiusa in un duplice concetto: temerarietà/umanità. Achille è temerario, sfrontato, coraggioso, non teme nulla, anzi! Combatte contro i troiani perché deve dar sfogo alla sua rabbia, quest’ultima causata da Agamennone e dal rapimento della concubina Briseide. È la menis, l’ira funesta a guidare l’eroe nel celeberrimo poema omerico. Ma a quest’ira corrisponde, quasi in maniera stridente, un’umanità che non ci si aspetterebbe da un eroe forte e feroce come il Peleiadeo Achille. Su questo focalizza l’attenzione l’autrice: Achille è, anche, umano ed ha in sé le caratteristiche che lo avvicinano a quella sensibilità che dovrebbe essere estranea ad un eroe della sua caratura. Il valoroso acheo mostra più volte di cedere ai comandi del suo cuore, prima con la morte di Patroclo, suo fidatissimo amico, poi con la morte di Pentesilea, da lui stesso trafitta. Ma lui resta tale. Da eroe qual è, va incontro al suo destino, alla sua vita brava e breve, perché così è segnato – dal mito – ed è così che, alla fin fine, si chiude. Achille muore, ma di lui si continuerà a parlare.
A fare da contraltare all’eroe iliadico, c’è il figlio del versatile Odisseo, l’eroe che sopportò le mille peripezie durante i dieci anni di ritorno ad Itaca, Telemaco. Lui non è un eroe, ma un giovane meno intraprendente, più “bambinone”. Sul figlio di Odisseo pesano i comandi della madre prima, i giudizi dei pretendenti al trono, poi. Non ha il coraggio di Achille. Soltanto in brevi occasioni da prova di ardore, di quell’ardore che spiazza i presenti, la mamma Penelope su tutti. Lui non è abituato al comando, ma a vivere nell’ombra, contrariamente ad Achille che vuole sbarazzarsi dell’ombra di Agamennone. Ma comunque i due protagonisti omerici si compensano. Ed è proprio su questo che l’autrice pone l’accento: alla sfrontatezza giovanile di Achille, vista come elemento spinoso per i più anziani, corrisponde l’amore filiale e il temperamento mansueto di Telemaco, dinanzi al quale non si può non ammirare il suo armonioso carattere in continuità con Odisseo. Del padre, comunque, lui ne è la prosecuzione, mano marcata, ma lo è.
Oltre ai personaggi presentati da Omero nei suoi due più grandi poemi, l’antichità ci ha restituito, grazie al mito, prima, ed al teatro, poi, altre due figure che l’autrice pone quasi a confronto: Oreste ed Antigone.
Di Oreste si hanno diverse notizie. Dal mito al teatro, passando per l’epica. Lui è il protagonista di una delle trilogie più conosciute dell’antichità, l’Orestea, portata in scena alle Grandi Dionisie del 458 a.C. L’autrice sottolinea l’ardore del protagonista che si manifesta nel coraggioso atto dell’uccisione della madre Clitennestra per vendicare la morte del padre Agamennone. L’atto coraggioso è esemplificativo soprattutto se si pensa al fatto che Oreste deve, in nome di una giustizia tutta antica, uccidere la madre che lo ha reso orfano di padre. Ed è qui che si esplica il coraggio di un giovane greco che è costretto a portare a termine il suo proposito, conscio di essere consacrato come coraggioso, ma al contempo di essere condannato dalle Erinni punitrici della madre.
Di contro a personaggi tutti maschili, l’autrice prende in considerazione una delle figure, probabilmente, più icastiche e affascinanti del mondo antico, Antigone. Protagonista dell’omonima tragedia di Sofocle, portata in scena alle Grandi Dionisie del 442 a.C., Antigone è forse l’esempio della giovane sfrontata che osa opporsi ad una dura lex posta da Creonte che vietava di dare sepoltura a Polinice – e chi come lui – dopo lo scontro fraterno con Eteocle. In lei c’è la forza di una donna che si contrappone per ben due volte: una giovane contro un tiranno, si direbbe, adulto e deciso, ma, soprattutto, una donna contro un uomo, emblema di una lotta che poteva – all’epoca – esprimersi soltanto sulla scena.
Ma i giovani, si sa, non son fatti soltanto per la guerra o per le forti opposizioni, ma anche e soprattutto per l’amore. Ed è nella parte centrale del suo volume che l’autrice, con un abile intermezzo, tratta la questione dell’amore e di come esso fosse concepito dagli antichi. Dall’amore tra uomini e donne a quello pederastico. Dalle figure omeriche a quelle della grande poetessa di Lesbo, Saffo. L’amore è un concetto che abbraccia a tutto tondo, soprattutto i giovani. Loro sono fatti per amare e per essere amati (spesso dai più anziani). Loro devono cedere alle lusinghe del dio Eros che disinibisce le catene del cuore per dar sfoggio alle passioni. È la gioventù, ancor oggi, il periodo più fecondo nel quale Eros sguazza allegramente.
Ma dopo quest’intermezzo, l’autrice ritorna a illustrare altre due figure, le ultime della lista, che rappresentano l’emblema del coraggio, dell’eccesso, della temerarietà, della brama di potere: Alcibiade e Alessandro Magno.
Alcibiade è figura arcinota nel panorama dell’Atene del V a.C., soprattutto nell’ultima fase, quella della trentennale e crudele guerra che la vede contrapposta alla laconica Sparta. Alcibiade, allievo di Socrate (forse questo avrà pesato sul giudizio dei contemporanei) – è la figura che ben incarna la volontà di contrapposizione e della brama di potere a tutti i costi. Lui deve vincere, perché lui è convincente. Lui vince in ogni campo. Alcibiade darà prova di sé ad Atene, a Sparta ed in Persia. È un personaggio, come sottolinea l’autrice, che vive sia di luci ed ombre sia di un odi et amo tipico di un carattere forte e risoluto. È il classico giovane che deve arrivare per forza.
Accanto alla figura di Alcibiade, l’autrice pone un altro personaggio, sicuramente più conosciuto. Una figura che ha suscitato la gelosia dei successori, finanche di Cesare che, a Cadice, dinanzi ad una sua effige, non poteva che constatarne la grandezza. Il protagonista dell’ultima parte del volume è Alessandro Magno, il famoso macedone, figlio di Filippo II, che assoggettò sotto di se – previo disegno divino – il mondo tra oriente ed occidente. Lui rappresenta l’emblema del coraggio, del giovane predestinato a compiere grandi azioni (di lui, si dice, fosse nato dall’unione tra Zeus, sotto le sembianze di un serpente, e Olimpiade, moglie di Filippo II), del giovane che osa tutto, perfino mischiare folklore orientale ed occidentale. È lui il giovane per eccellenza, proprio come Achille, l’eroe. E non è un caso che il volume si concluda proprio con la presentazione dell’”eroe” macedone. In apertura l’eroe iliadico, in chiusura quello macedone che di Achille ne era fecondo seguace e proprio come lui vantava: ardore, temerarietà e semi-divinità. La stessa autrice scrive, infatti:
“Uno tra i migliori condottieri di sempre, l’ultimo erede dei Greci […] si ricongiunge così al primo, a colui che era stato il migliore degli Achei. Il cerchio che accoglie dentro di sé le vicende della civiltà in cui riconosciamo le nostre radici ha come sua cornice le imprese, la forza, l’animo di due giovani di levatura straordinaria, che su quella civiltà riuscirono ad imprimere il loro inconfondibile sigillo”.