L’attesa del protagonista: descrizione ed esempi di un espediente classico

Uno degli espedienti più interessanti del teatro antico è senz’altro quello di posticipare (anche fino all’inverosimile) l’arrivo del protagonista. Infatti, all’inizio di un’opera può capitare che non venga sin da subito mostrato un personaggio e che questo personaggio sia proprio quello più importante. Lo scopo di tale espediente narrativo è accrescere il senso di attesa pubblico. Il protagonista viene nominato continuamente dagli altri personaggi, perché viene considerato il solo che possa salvare un’intera situazione, il solo responsabile della salvaguardia degli altri.

Aleksei Mikhailovich Kolesov, Ritratto di una giovane donna, M.Ob.2017, Museo Nazionale a Varsavia. Immagine in pubblico dominio
Aleksei Mikhailovich Kolesov, Ritratto di una giovane donna, M.Ob.2017, Museo Nazionale a Varsavia. Immagine in pubblico dominio

Il senso di attesa dei personaggi diviene, quindi, attesa del pubblico, che non fa altro che chiedersi quando arriverà questo salvatore, come sia d’aspetto o di carattere, e se davvero rispecchi le descrizioni che vengono fatte di lei o di lui. È una tecnica narrativa che ha avuto una certa fortuna e che si trova anche in grandi romanzi della letteratura, per esempio in Anna Karenina o, in forma ancora più evidente, all’interno de Il grande Gatsby, in cui il protagonista si presenterà quasi a metà romanzo, divenendo l’oggetto di ricerca prediletto di personaggi e lettori.

la copertina della prima edizione del Grande Gatsby (The Great Gatsby), di Francis Scott Fitzgerald, illustrata da Francis Cugat. Immagine in pubblico dominio

Quando si parla di questo meccanismo, possono verificarsi due situazioni: la prima è che il personaggio in questione faccia presto il suo ingresso. Viene nominato, brevemente descritto e il pubblico lo vede arrivare immediatamente. È interessato, è incuriosito, ma non è smanioso di conoscerlo. Un caso del genere si ritrova, per esempio, in Antonio e Cleopatra di William Shakespeare, in cui vediamo Philo, un sottoposto di Marco Antonio, che si lamenta del comportamento del suo generale che, per amore di Cleopatra, si è ammorbidito fino all’indecenza. Quello che un tempo era un valente e coraggioso condottiero si è ridotto ad essere

“il mantice e il ventaglio / che raffredda i calori di una zingara” (I, vv.9-10).

E, subito dopo, assistiamo al dialogo tra i due amanti, che confermano quanto detto già dal personaggio.

Questa prima circostanza non impressiona più di tanto perché è notevolmente diffusa. Invece, la seconda situazione è quella in cui tale arrivo viene ritardato il più possibile. Operazione assai più pericolosa perché instillare una tale trepidazione nel pubblico può anche portarlo a stufarsi e a non voler proseguire la visione. Non è facile mantenere quel tipo di tensione. Richiede una certa maestria, perché bisogna dimostrare al pubblico e al lettore che è valsa la pena aspettare tanto.

Cassandra offre una libagione ad Ettore. Kántharos attico a figure rosse, Pittore di Eretria (425-420 a.C. ca). Fondazione Ettore Pomarici Santomasi (Gravina in Puglia). Foto © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons, in pubblico dominio
Cassandra offre una libagione ad Ettore. Kántharos attico a figure rosse del Pittore di Eretria (425-420 a.C. ca.), presso la Fondazione Ettore Pomarici Santomasi (Gravina in Puglia). Foto © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons, in pubblico dominio

Potremmo dire che il primissimo caso in cui viene messo in atto un espediente di questo tipo si trova nell’Iliade di Omero quando, per tutti i libri iniziali, viene nominato continuamente il personaggio di Ettore – in un certo sento il coprotagonista del poema, insieme ad Achille – e viene mostrato solo a narrazione avviata. Ancora più eclatante e interessante è il caso di Odisseo, protagonista per l’appunto dell’Odissea, che viene nominato e descritto ampiamente per i primi quattro libri, per poi ritrovarlo solo a narrazione avviata, quando è sull’isola di Calipso, in attesa di ripartire per far ritorno a Itaca.

attesa del protagonista Bernardino Nocchi, Mercurio ordina a Calipso di lasciar partire Ulisse (Il pianto di Ulisse). Foto del Museo Civico di Modena, in pubblico dominio
Bernardino Nocchi, Mercurio ordina a Calipso di lasciar partire Ulisse (Il pianto di Ulisse), presso il Museo Civico di Modena, Inv. n. 167a. Foto dall’Archivio del Museo Civico di Modena, CC BY-SA 3.0

All’interno di questi quattro libri iniziali, facciamo la conoscenza di Telemaco, il figlio dell’eroe, mentre parte dalla sua reggia, infestata dai Proci, e va, su ordine di Atena, alla ricerca di suo padre. Tale viaggio di ricerca può sembrare inutile ai fini della storia, ma ha un preciso significato nella vita del figlio, perché Telemaco, allontanandosi da casa, diviene a tutti gli effetti un adulto. Si tratta di un rito di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Ma questo è un altro discorso.

attesa del protagonista Minerva e Telemachus, Jacob Folkema, da Louis Fabritius Dubourg (1703 - 1767). Immagine Rijksmuseum, in pubblico dominio
Minerva e Telemachus, Jacob Folkema, da Louis Fabritius Dubourg (1703 – 1767). Immagine Rijksmuseum, in pubblico dominio

Quello che a noi interessa è il desiderio di Telemaco di trovare suo padre, di avere sue notizie, di sapere per certo che sia vivo e che farà ritorno a casa per salvare la sua patria, la sua reggia e la sua famiglia. Odisseo è il salvatore, è colui che è destinato a riportare l’equilibrio. E quel senso di attesa, quell’ansia di cercare e ricercare un fantasma, la trasmette anche a noi. I personaggi di un’opera sono tanti Telemaco, che desiderano con tutto il cuore veder comparire il protagonista. Lo cercano ovunque, domandano di lui e aspettano, con il cuore in gola, che finalmente arrivi. Gli conferiscono una funzione quasi messianica. E noi? Chi saremmo noi spettatrici e spettatori? Noi saremmo tanti Penelope. Siamo condannati ad aspettare nel nostro immobilismo il ritorno o l’avvento del protagonista. Costretti ad altro se non a questo.

Il teatro classico abbonda di protagonisti che si fanno attendere. Nel Prometeo incatenato di Eschilo, per esempio, assistiamo all’ingresso in scena di Kratos (potere, nonché arma principale di Zeus) ed Efesto. Questi predispongono la trappola terribile di Prometeo, il nostro protagonista, condannato a restare incatenato ad una rupe, mentre un’aquila, simbolo di Zeus, gli becca il fegato, fino a divorarlo del tutto. Organo che, poi, ricrescerà condannando il Titano ad un indicibile supplizio fino alla sua liberazione (che avverrà solo nel capitolo finale della trilogia, nel Prometeo liberato, di cui non abbiamo che frammenti).

In questo dialogo con cui si apre la tragedia, si spiegano le ragioni di una così tremenda punizione e si parla di Prometeo. Viene definito un ribelle, perché è andato contro l’ordine di Zeus e ha rubato il fuoco divino per consegnarlo agli uomini. Il pubblico, durante questo scambio di battute, non può che provare pietà nei confronti del Titano e attende che faccia presto il suo ingresso in scena, cosa che avverrà intorno al novantesimo verso, prassi comune in molti drammi antichi.

The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202.
Prometeo in un dipinto di Gustave Moreau. Immagine [1] The Yorck Project (2002) 10.000 Meisterwerke der Malerei (DVD-ROM), distributed by DIRECTMEDIA Publishing GmbH. ISBN: 3936122202, in pubblico dominio

Nell’Aiace di Sofocle, l’ingresso del protagonista è preceduto sempre da un dialogo, in questo caso tra Odisseo e Atena. Tale scambio di battute serve al pubblico a capire cosa sia successo (e cioè che Aiace si è avventato sul bestiame), e il motivo del suo folle proposito, cioè l’ottenimento delle armi di Achille, morto durante la conquista di Troia. E capiamo che Aiace non volesse fare man bassa del bestiame, ma dei suoi stessi compagni. Il pubblico non può che provare repulsione nei suoi confronti e del suo gesto. Eppure, al contempo, sperimenta una certa empatia (che potremmo definire negativa) nei suoi confronti, perché reputa Aiace meritevole di queste armi e ingiustamente privato di esse. Sentimento simile a quello che si prova per Medea. Eppure, a noi interessa che questi sentimenti siano già in circolo nel momento in cui Aiace si presenta sulla scena, sempre al novantesimo verso. Il pubblico non ha ancora modo di avvertire la mancanza del protagonista. Non è per ora alla ricerca spasmodica di quest’ultimo, diversamente da Odisseo che siede fuori dalla sua tenda

“in atteggiamento di chi caccia” (v.2).

Fa il suo ingresso più o meno al novantesimo verso anche Medea, nell’omonima tragedia euripidea, dopo che di lei si è parlato, in toni non molto lusinghieri, sia nel prologo recitato dalla nutrice, sia nel dialogo tra la nutrice e il demagogo. La curiosità che si prova nei confronti di Medea è amplificata dalla paura che gli altri personaggi hanno di lei. Si tratta di un preciso meccanismo che si ritrova nei film horror, quando al timore del ritrovamento si mescola una certa curiosità ansiosa, che sprona il pubblico in sala a chiedersi quando sbucherà il misterioso figuro. Quella stessa trepidazione, mista a paura, caratterizza l’attesa del pubblico durante la messa in scena del dramma di Medea. La si desidera ardentemente, pur temendola.

Interessante, seppur diverso, è il caso del Filottete di Sofocle. Nella tragedia in questione, Odisseo e Neottolemo ordiscono un piano ai danni dell’eroe greco, confinato nell’isola di Lemno a causa di una ferita infetta, per sottrargli l’arco di Eracle senza il quale non possono sconfiggere i troiani. L’ingresso di Filottete non avviene al canonico novantesimo verso, ma al 220º. Il motivo per cui viene posticipato il suo ingresso non è, però, quello di accrescere il senso di attesa nel pubblico, sia perché Filottete non è una figura irresistibile, sia perché la tragedia consta di 1500 versi, quindi tale “ritardo” non viene avvertito. Serve solo a spostare l’interesse del pubblico su Odisseo e, soprattutto, su Neottolemo, che è chiamato a scegliere tra il furto dell’arco in modo ingannevole (come vorrebbe Odisseo) e la possibilità di domandarlo apertamente a Filottete, facendo leva sul suo amore per la patria. È più che altro il dilemma morale che deve interessare al pubblico: è giusto agire male anche se a fin di bene o è meglio correre il rischio di fallire, ma agire in modo corretto?

Ma, adesso, analizziamo il caso particolare dell’Agamennone di Eschilo, in cui l’eroe – allo stesso tempo protagonista e colui che dà il nome all’opera – arriva in scena solo a metà tragedia, al verso 810 e, per giunta, pronunciando nell’intero dramma pochissime battute, contrariamente a sua moglie Clitennestra, il personaggio più presente in scena. Agamennone è percepito da tutti gli altri personaggi e dal pubblico stesso come il salvatore, il solo che potrebbe riportare giustizia nel suo stesso palazzo, oramai nelle mani della moglie e del suo amante, che sarà trattato nel corso dell’opera come un sottoposto della donna. Un dettaglio importante perché rivela un capovolgimento dei ruoli all’interno della reggia e, quindi, la necessità che venga riportata la giustizia (parola chiave dell’intera Orestea, di cui Agamennone è solo il capitolo iniziale) e, soprattutto, ristabilito l’equilibrio che Clitennestra ha sconvolto.

Agamennone su una roccia con scettro. Frammetno da una lekanis attica a figure rosse del pittore di Midia (410-400 a. C.) Ritrovata a contrada Santa Lucia, a Taranto, attualmente al Museo Nazionale Archeologico di Taranto. Foto © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons, in pubblico dominio
Agamennone su una roccia con scettro. Frammetno da una lekanis attica a figure rosse del pittore di Midia (410-400 a. C.) Ritrovata a contrada Santa Lucia, a Taranto, attualmente al Museo Nazionale Archeologico di Taranto. Foto © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons, in pubblico dominio

Seppure, quindi, vi sia un’attesa disperata del re, allo stesso tempo i personaggi desiderano che non faccia mai il suo ingresso, perché sono consapevoli delle oscure macchinazioni della regina che, infatti, ucciderà il marito poco dopo il suo arrivo. È un arrivo temuto e agognato il suo, e il pubblico partecipa a questa ambivalenza sin dalla prima scena, quando viene mostrata una guardia che ha il compito di avvisare della distruzione di Troia e del conseguente arrivo del re. Al termine del suo monologo iniziale, che funge da prologo della tragedia, la sentinella confessa di voler stringere

“la cara mano del signore della casa finalmente tornato”,

ma preferisce tacere su quello che ne sarà di lui (vv.36-39), lasciando intendere quelle sventure che il pubblico del tempo, attento conoscitore della storia, di certo non ignorava. Il suo avvento è, pertanto, un evento di per sé tragico, eppure necessario, perché si possa compiere giustizia: Agamennone sarà sì ammazzato da Clitennestra, ma solo perché quest’ultima sia giustiziata a sua volta da Oreste. Il figlio, in quanto vincitore, sarà parimenti atteso dai personaggi (soprattutto da sua sorella Elettra) e dal pubblico, per riportare definitivamente l’equilibrio.

Impossibile non fare cenno a come Heinrich von Kleist faccia sua questa tecnica prettamente classica e come la adoperi all’interno della sua Pentesilea, un omaggio al mito e al teatro greco. Innanzitutto, siamo nel 1808, in un momento di grande riscoperta dei classici e Kleist decide di raccontare la storia dell’amazzone Pentesilea e di Achille. Il poeta e drammaturgo prussiano non ha voluto rifarsi alla versione ufficiale del mito ma ad una minore, scritta da Tolomeo Chenno. Secondo questo scrittore greco, non è Achille a risultare vincitore del duello con l’amazzone, ma quest’ultima. Il pubblico, che naturalmente ignorava il diverso esito, si ritrova a sentir parlare continuamente di Pentesilea per tutte le scene iniziali, dense di dialoghi tra eroi greci, per poi fare la sua conoscenza solo nella quinta scena. I greci presentano Pentesilea come una sorta di antitesi alla loro visione del mondo. Nella cultura greca, infatti, non era previsto che le donne prendessero le armi e combattessero contro gli uomini, né tantomeno si concepiva una cultura senza maschi, in cui le donne fossero dedite unicamente alla guerra. L’esistenza di Pentesilea è uno scandalo.

La Pentesilea di Kleist: cronaca di un amore perverso

Eppure, nonostante la disapprovazione nei suoi confronti, la controparte greca è smaniosa di vederla, di assistere alla visione di qualcosa di unico. Qualcosa da disapprovare, certamente, ma fenomenale nella sua eccezionalità. Perciò, trasmettono tale ambivalenza al pubblico che, nonostante non debba aspettare 800 versi per vederla, ha fretta, è preso da un’irresistibile smania. Pentesilea, quindi, diviene un oggetto di desiderio quasi sessuale. Viene descritta la sua forza maschile, il potere di comando, l’intelligenza, tutti attributi che la rendono irresistibile sia al pubblico sia ai personaggi. Kleist riesce a creare quasi un senso di vertigine che non si esaurisce neppure nel momento in cui il personaggio fa il suo ingresso. Permane un certo mistero, una certa inafferrabilità. Come se neppure nel finale, vedendola trionfare sul suo amante combattente, siamo in grado di definirla compiutamente. Come se noi stessi fossimo prede della sua forza dirompente e del suo fascino femmineo e, al contempo, animalesco. In questo modo, attraverso dialoghi e descrizioni concitate, Kleist recupera tale espediente squisitamente classico e lo arricchisce ulteriormente, rendendo il personaggio di Pentesilea irresistibile, soprattutto per chi guarda.

Pentesilea ed Achille su un cratere a campana lucano a figure rosse del Pittore di Creusa (tardo V secolo a. C.). Foto © Marie-Lan Nguyen / Wikimedia Commons, CC BY 2.5

Note bibliografiche:

Bosco L., Metà furia metà grazia. Il classicismo weimariano e la Pentesilea di Heinrich von Kleist, Pensa Multimedia, Lecce 2009.

Eschilo, Orestea, introduzione di Vincenzo Di Benedetto, traduzione e note di Enrico Medda, Luigi Battezzato, Maria Pia Pattoni, testo greco a fronte, Rizzoli, Milano 1995.

Eschilo, Prometeo incatenato con frammenti della trilogia, a cura di Enzo Mandruzzato, testo greco a fronte, Rizzoli, Milano 2004.

Von Kleist H., Opere, a cura e con un saggio introduttivo di A.M. Carpi, Mondadori, Milano 2011

Shakespeare W., Antonio e Cleopatra, a cura di A. Lombardo, Feltrinelli, Milano 2016.

Sofocle, Aiace-Elettra, introduzione e note di E. Medda, traduzione di M.P. Pattoni, testo greco a fronte, Rizzoli, Milano 1997.

Sofocle, Trachinie-Filottete, introduzione di V. Di Benedetto, premessa al testo di M.S. Mirto, traduzione di M.P. Pattoni, testo greco a fronte, Rizzoli, Milano 1990.

Nata a Bitonto nel ’94, ha studiato Lettere Classiche e Filologia Classica. Nel 2021 si è laureata in Scienze dello Spettacolo. Giornalista Pubblicista, collabora con più testate online. Attualmente frequenta il master in Critica Giornalistica alla Silvio D’Amico. I suoi interessi e studi riguardano la letteratura, il cinema e il teatro.

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